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L'Arrotino (Agazz) e lo Stagnino (Stagnein) 

Esercitavano un "mestiere errante" per strada o nei cortili delle case, si spostavano di paese in paese, di piazza in piazza, tramandandosi il mestiere di padre in figlio. L'arrotino arrivava col suo pesante strumento, la mola, che faceva girare velocemente per affilare coltelli (curtel), forbici (forbs) e arnesi da lavoro di ogni tipo, soprattutto quelli usati per il lavoro dei campi (manarèin, falzán, fer da sghèr). A volte l'arrotino era anche stagnino. I suoi attrezzi del mestiere erano chiodi, pezzi di rame e di latta, martellini e stagno per restaurare o rivestire l'interno di recipienti di rame. Portava con sé anche tegami nuovi da vendere e pezzi di condutture di piombo per riparazioni.

I gessaroli

L’estrazione avveniva tramite cunei in legno conficcati nelle fessure naturali della roccia e successivamente gonfiati d’acqua fino a provocarne il distacco.

La pietra veniva poi frantumata con utensili metallici e poi cotta a temperature intorno ai 140 C in forni rudimentali, basati sul sistema costruttivo della volta, formata da conci di pietra, sotto la quale veniva allestito un fuoco.

Terminata la cottura i blocchi erano poi macinati finemente per ottenere il gesso in polvere. Le tecniche di estrazione e di produzione hanno subito, nei secoli, radicali miglioramenti e permettono oggi di ottenere un prodotto estremamente controllato ed economico, molto apprezzato dal mercato. Negli stabilimenti della Gessi Emiliani è possibile ammirare l’efficacia dei moderni procedimenti industriali e il lavoro coordinato dagli operai, in molti casi figli di “gessaroli”.

Il Cestaio (al Paniner) 

Il nostro cestaio è il Sig. Giovanni Carpiteti che ha 88 anni. Ha sempre fatto il contadino ed ha imparato ad intrecciare cesti a 18 anni da un vicino di casa; da allora ha continuato a produrne per le necessità della sua famiglia e del lavoro legato alla coltivazione della terra, occupando le sere invernali nella stalla prima, poi il tempo libero di pensionato nella cantina della propria abitazione a Zola Predosa.

Il suo lavoro inizia i primi di agosto quando percorre il fiume Lavino e i boschi alla ricerca del SALICE DI FIUME (VRADGA) e del VIMINE SELVATICO. Raccoglie rami nuovi (VEMMEN) nati cioè tra aprile e maggio, perché in questo periodo si riesce a staccare bene la corteccia dal fusto (AL PEILAN). Per fare questa operazione, che va eseguita subito dopo il distacco del ramo dalle piante, usa una forcella di quercia di 30 cm (GIAVVA), senza linfa e senza nodi, in cui fa scorrere il vimini procurando facilmente il distacco della corteccia.

Il VEMMEN non raccolto in agosto, si può raccogliere anche nell'aprile successivo, nel periodo in cui “si muove la foglia e scorre la linfa fresca”; ma è solo l’occhio dell’esperto, secondo la posizione e la stagione, che può definire questo particolare momento di raccolta.

Una volta raccolti, pelati e divisi per grossezza i vimini si lasciano seccare. Quando il Sig. CARPITETI decide di utilizzarli per un cesto, li sceglie secondo la grossezza e la lunghezza, li conta e li mette a bagno per qualche ora, poi inizia a lavorarli ancora bagnati.

La lavandaia

Nelle famiglie di una volta ogni ragazza doveva dedicarsi, almeno una volta al mese al durissimo lavoro del BUCATO GROSSO (al BUGHE’). Alcune donne trasformarono, per necessità, questa attività in un vero e proprio mestiere, che eseguivano presso le famiglie che potevano permettersi la lavandèra.

La biancheria veniva prima messa a bagno in acqua fredda, in un mastèl ad làgn (di legno). Veniva fatta una prima saponata con al bruschèn, cui seguiva una veloce sciacquata (l’odierno prelavaggio). Si ricomponeva poi la biancheria in un grande mastello, seguendo un ordine preciso: le lenzuola e i pezzi più grandi sotto, poi gli altri capi, ordinando tutto in strati ben stesi. Si ricopriva poi con n grande telo (zindrandel) che debordava dal mastello.

Sul telo si metteva la cenere setacciata e poi si buttava sopra acqua bollente che, filtrando attraverso la cenere ed il telo, scendeva sulla biancheria formando la LISCIVA (l’alsi).

Si lasciava riposare per un paio d’ore, poi si toglieva il telo con i residui di cenere, e, capo per capo, si lavava con sapone e brusca appoggiandosi sulla panca (banca) usando l’acqua del pozzo o del macero e poi ogni capo veniva sbattuto ripetutamente sulla banca per sbiancarlo ulteriormente e ammorbidirlo, ritorto per far uscire tutta l’acqua “sbater e storzer i linzù” (operazione che corrisponde alla moderna centrifuga). Con la lisciva fredda rimasta nel mastello si lavavano i capi scuri (pantaloni, grembiuli da lavoro, abiti, etc..).

Il Ciabattino - (zavatèin) 

Un tempo non esistevano negozi di calzature, ma ciabattini (zavatèin) e fabbricanti di scarpe (calzulér). Essi avevano la loro piccola bottega o giravano le campagne, risolando (arsuladura), rattoppando (arpzadura) scarpe nelle cucine e nelle stalle, seduti davanti a un piccolo deschetto (bancatt).

Strumenti essenziali del ciabattino sono la lesina (laisna) e il punteruolo (puntirol) per praticare fori nel cuoio in cui infilare lo spago (spègh), impiegato a gomitoli (goffla), per cucire (cuser) la tomaia (thèr) alla suola (sóla).

Il filo sottile veniva raddoppiato e saldato con la pece (zira-paigla). Per facilitare il passaggio nei fori si fissava a un capo dello spago della setola di porco (saddla) e per tirare lo spago con forza si fasciava la mano con una striscia di pelle. La cucitura é il modo piú antico di unire suola e tomania. Solo nell'ottocento venne di moda la chiodatura e quindi altri strumenti di lavoro: il martello (martel) per piantare e schiodare i chiodi (ciud). I chiodi potevano essere di varie misure: quadrón, giarón, bulatt, e venivano ribattuti sul treppiede o piede di ferro (tripí), attrezzo a tre forme per suola, mezzasuola e tacco (tac).

Con il trincetto (trinzátt) si tagliave e si rifilava il cuoio (curam), per arrotolarlo si usava una Preda, per ammorbidirlo lo si teneva a mollo in una cadinéla, dalla quale si attingeva per bagnare la preda (quando lo sputo veniva a mancare).

La divisa del ciabattino consisteva in un grimbel di pelle fissato al collo e dietro la schiena.

Altri strumenti di lavoro erano: la lima (lemma), il lucido (loster), la vernice (varnis), la spazzola (strazzareina), le tenaglie (tanai) e dei pezzetti di vetro (veider) per pareggiare l'orlo delle scuole.

Al meccanic d'bizicl

Quando, nel 1953, il meccanico di biciclette CASTAGNINI decise di “mettersi in proprio”, nella bottega di Via Risorgimento, aveva alle spalle anni di gavetta: prima come “FATUREN” presso il meccanico MASETTI di Zola Predosa, poi come operaio presso l’INVICTA, nota fabbrica di biciclette e ciclomotori di Bologna. L’attrezzatura di base, che utilizzava per il proprio lavoro, se l’era, per lo più, costruita da solo, impegnandosi e inventandola secondo le necessità.

Allora la bicicletta era il mezzo di trasporto più diffuso e, non ostante la presenza a Zola Predosa di numerosi concorrenti, c’era lavoro per tutti. Ogni frazione aveva, infatti, la propria bottega di meccanico di biciclette (aperta anche la domenica mattina): quella di COMASTRI a Riale, di LEPRI al Pilastrino, di CORTICELLI ai Gessi, di MASETTI a Lavino, di BIAGI e di QUERZE’ (poi MARANI) a Zola, di LUCARINI a Ponte Ronca.

CASTAGNINI aveva poi anche la licenza di deposito, e ricorda bene i tempi in cui, chi andava in Comune, gli affidava la bicicletta o il motorino, oppure quando, per la Fiera di Zola –che si teneva il 15 Agosto-, lo spazio intorno alla bottega era stipato di centinaia di biciclette.

Intorno agli anni Sessanta, con il boom dell’automobile, il lavoro iniziò a diminuire, alcuni meccanici chiusero bottega, e CASTAGNINI, rimasto uno dei pochi riparatori e rivenditori della zona, divenne anche autonoleggiatore, con tre automobili senza autista. Poi nel 1973 iniziò, con l’AUSTERITY, la riscoperta della bicicletta: prima come mezzo di spostamento, poi come SPORT, praticabile in ogni età.

L’attività di CASTAGNINI prese nuovo impulso e, aggiornata alle nuove tecnologie ed ai nuovi materiali, continua tuttora affidata al figlio, ma ancora sotto il suo controllo vigile.

Il Fabbricante di scope (Granadler)

La fabbricazione di scope (granè) e scopini (granadel) era un'attivitá riservata al periodo invernale, ma quando il maltempo impediva i lavori all'aperto. Per la produzione di scope si utilizzava prevalentemente la SAGGINA (malgia), coltivata per questo utilizzo in piccole quantitá da aprile a settembre.

La pianta, che raggiunge i due metri di altezza, veniva tagliata ad un metro dalla cima (panocia) poi si legavano gli steli in mannelle, lasciandoli all'aria sotto il portico. I semi, raspati con un pettine metallico, divenivano mangime per i colombi.

Quando la saggina era pronta, si procedeva alla confezione, per la quale servivano anche dei manici e dei rami di salice. Per il manico, che doveva essere resistente e non flessibile, si utilizzavano rami di olmo o di rolinia, rifiniti con la roncola. Oltre alla saggina venivano usati altri materiali secondo l'uso cui la scopa era destinata:

SANGUINELLA per la stalla (sanguineina)

BELVEDERE per l'aia (solfèr)

La lavorazione e la coltivazione della canapa furono una voce importantissima nell'economia rurale e industriale bolognese a partire dal XV secolo fino al XIX secolo. Da quel momento inizió un rapido declino di questa coltivazione, la cui scomparsa nelle nostre campagne, negli anni cinquanta, fu provocata dalla concorrenza esercitata dal cotone e da altre fibre meno costose, dall'invenzione delle fibre artificiali, dalla complessità della lavorazione, che per alcune fasi non si é riusciti a meccanizzare, dall'introduzione della barbabietola come coltura industriale alternativa e produttrice di altrettanto reddito.

La canapa é una pianta erbacea a ciclo annuale che raggiunge i 4/5 metri di altezza. Si seminava a marzo su un terreno (canapaio) sciolto e ben scolato, preparato con la tecnica della ravagliatura, cioé della combinazione del lavoro dell'aratro e della vanga. Si trattava di uno dei lavori piú "duri" a carico dei contadini, che lo eseguivano in novembre.

La raccolta degli steli veniva fatta ai primi di agosto. Il contadino tagliava gli steli col falcetto recidendoli alla base, e li riordinava sul campo in "mannelli" incrociati a "X". Gli steli, una volta essiccati, venivano battuti per terra, in modo da far cadere le foglie, e successivamente raccolti in fasci conici del diametro di due metri (prella). Dopo alcuni giorni la prella era disposta su un bancale, gli steli venivano selezionati e uniti in diversi mannelli (secondo la lunghezza).

Successivamente, i mannelli venivano portati al macero (masadur) e immersi nell'acqua stagnante in due o piú strati, trattenuti da sassi, per circa otto giorni. Questa operazione permetteva lo scioglimento delle sostanze collanti che tengono uniti fibra tessile e stelo.

Si procedeva quindi ad estrarre i mannelli dall'acqua e all'operazione di lavatura. In seguito i mannelli si lasciavano sgocciolare ai bordi del macero e poi con i carri venivano trasportati lungo le cavedagne per asciugare. Seguivano poi le operazioni di SCAVEZZATURA (scavzdòura) e GRAMOLATURA (gramadòura), (eseguite prima a mano con attrezzi rudimentali, poi con macchine a vapore), che consentivano di frantumare gli steli legnosi e ricavarne la fibra, che veniva poi pettinata (scardazè) sbattendola e ripassandola ripetutamente con larghi pettini di legno. Con un ulteriore passaggio attraverso lunghi e fitti pettini di acciaio si otteneva il GARGIOLO (garzòl), pronto per essere filato a mano o venduto ai canapifici. Gli scarti della fibra (stoppa/tuzòn) venivano impiegati per imbottiture scadenti o usi diversi.

La parte piú grossolana del gargiolo veniva utilizzata dai garzuler e dai cordai, ritorta con uno speciale mulinello (masóla) e trasformata in corde di vario tipo e spessore (laza-souga).

Tutte le operazioni descritte richiedevano un enorme impiego di "forza lavoro" (uomini e donne) e la famiglia contadina doveva ricorrere allo scambio delle opere (zerla) con altre famiglie, o alla manodopera salariata o specializzata (garzuler).

 

Il fabbro (Al Frab)

Il mestiere del fabbro è stato da sempre uno dei più considerati, per la sua utilità e per le grandi capacità che esso implicava.

In ogni paese vi era almeno una bottega di fabbro in cui diverse generazioni si tramandavano il mestiere.

Ogni bottega aveva qualche garzone che rimaneva tale per un lungo periodo perché il lavoro era molto complesso e richiedeva lunga pratica.

Il raggio di attività dei fabbri era molto ampio: dalla produzione per strumenti per l’agricoltura, alla fabbricazione di armi, all’impiego per il settore dei trasporti, alla produzione di moltissima strumentazione domestica ed artigianale.

Da ciò derivava una necessaria specializzazione professionale, ma nei paesi spesso il fabbro sapeva fare di tutto, dagli attrezzi agricoli, alle chiavi, ai ferri di cavallo, ai cancelli, agli strumenti domestici, e la sua bottega era spesso affiancata a quella del falegname con cui collaborava strettamente, pur mantenendo ciascuno la propria autonomia.

Ferri del mestiere erano:

l’incudine (ANCONZZEN), la fucina

il martello (MARTEL), le tenaglie (TANAI), la morsa (MORS)

il trapano (GALIGA) e il tornio (TAUREN)

La ricamatrice

Le origini del ricamo, nella sua funzione decorativa di tessuti usati per l’abbigliamento, si perdono nella notte dei tempi. Le antiche civiltà ce ne hanno lasciato una ricca documentazione. Un tempo semplice riempimento di zone precedentemente sfilate, sotto le mani abili delle donne di nobile lignaggio, guidate dalla fantasia e dall’inventiva, il ricamo si è via via arricchito di una infinita varietà di punti e disegni, fino a raggiungere il suo massimo splendore dal ‘500 in poi.

E’ in questo periodo che nasce il merletto, evoluzione del ricamo, che non utilizza più il tessuto come supporto, ma lo crea. La richiesta di questi manufatti, che impreziosivamo abiti di uomini e donne, fu tale, che l’opera delle dame non fu più sufficiente a soddisfarla. Nacquero cosi le Scuole, che istruivano le donne del popolo in quest’arte, che fu spesso unica fonte di sostentamento della famiglia.

L’avvento della società industriale distolse le donne da questa occupazione che, fin dall’800, comincio a scomparire.

Nelle campagne e nelle città le ragazze, però, continuarono ad esercitare, in modo più o meno elaborato, questa attività guidate dal desiderio dal desiderio di abbellire il proprio corredo da sposa.

Ed ecco che, dopo aver tessuto la tela, le ragazze occupavano la sera ed il tempo libero abbellendo lenzuola, asciugamani, camicie da notte con i punti più semplici del ricamo tradizionale:

  • PUNTI SFILATI per gli orli (orlo a giorno, gigliuccio, punto quadro, etc.)
  • PUNTO CROCE per cifrare i proprio capi di biancheria
  • PUNTO ANTICO per decorazioni più elaborate
  • MACRAME’ per i capi rifiniti con frange.

Le più dotate per precisione, fantasia, pazienza, trasformavano questa attività in un mestiere, raggiungendo livelli di vera arte che possiamo ammirare anche in capi decorati con tecniche diverse:

  • AEMILIA ARS (evoluzione del merletto veneziano, tipico della zona bolognese)
  • TOMBOLO
  • CHIACCHERINO

Il falegname

Il legno, fino alla prima metà dl Novecento, è stato un materiale di fondamentale importanza per la vita quotidiana, poiché era la materia prima delle attrezzature contadine, da quelle delle cantine a quelle per fare il pane (GRAMA), per lavorare la tela, per la canapa, per l’edilizia, per l’arredamento delle case, per il tiro dei bovini, per tutti gli arnesi che occorrevano per lavorare la terra.

In realtà sulla lavorazione del legno si sono sviluppate molte figure professionali:

I segantini (SGANTèIN) che ottenevano dai tronchi tavoli e assi in misure convenzionali. Proverbiale era la loro fatica da cui derivava un solido appetito e l’espressione “CHE SGANTèIN”, detta di chi divora grandi quantità di cibo.

I carrettieri (CARRADORI) che costruivano ruote, birocci, carri e carrozze.

I bottai che costruivano botti, bigonci, tini, etc. e ne facevano la manutenzione.

I mobilieri.

Gli intagliatori.

Gli intarsiatori.

I restauratori.

Nei piccoli paesi spesso un solo artigiano riassumeva in sé tutte queste capacità e fabbricava gli oggetti più diversi: dai letti alle ruote dei carri, dai tini ai manici e perfino alle serrature (utilizzando le siepi di bosso coltivate nei pressi delle abitazioni) provvedendo anche alle varie riparazioni.

Per tutte le figure i ferri del mestiere erano gli stessi:

Un robusto tavolo da lavoro (BANCH) attrezzato con la morsa (MORS);

La colla (COLA GARAVELA) fatta con stecche di ossa di pesce, che si trituravano e poi si scioglievano in una calderina con acqua bollente;

I trapani a mano (GALIGA o TRIVELA) e i trapani di piccole dimensioni (TRUVEL e TRUVLEIN);

I morsetti per stringere;

Pialla e pialletto;

Sega a mano (SAIGA) e piccola sega (SGATTA);

Scalpelli di varie misure per lisciare e intagliare (SCARPEL);

Mazzolo di legno (MAZOL), martello (MARTEL) e tenaglie (TANAI);

Lima a denti grossi (RASPA) e a denti sottili (LEMMA).

L'apicoltore

Generalmente ogni apicoltore inizia la propria attività trovando uno SCIAME di api (cioè un glomero di migliaia di api, con la propria APE REGINA) che, sciamando da un altro alveare sovraffollato, si attacca ad un ramo, o ad un muro, alla ricerca di un luogo adatto a creare un nuovo alveare.

Questo sciame viene immesso dall'apicoltore, con molte avvedutezze, nell'ARNIA, una cassetta di legno suddivisa in dieci FAVI paralleli cioè dieci fogli di cera vergine. E su questi FAVI che le API OPERAIE iniziano a costruire il nido, cioè tante cellette esagonali di cera, nelle quali l'APE REGINA depone migliaia di uova. Dalle uova nascono le larve che vengono nutrite col miele dalle API NUTRICI.

Dopo sei giorni le larve sono mature, le nutrici cessano di alimentarle e chiudono la cella con un opercolo fatto di polline e cera..

Così rinchiusa la larva si trasforma in un' ape perfetta che esce da sola all'esterno, pronta ad iniziare il proprio ciclo vitale, che va da sei mesi (durante la stagione invernale) alle tre settimane (nell'epoca in cui l'attività dell'alveare è più intensa).

Durante questo periodo, l'ape operaia esegue tutti i lavori indispensabili alla vita della colonia: allevamento delle larve, accadimento dell'ape regina, pulizia dell'arnia, sistemazione del miele, approvvigionamento del polline e dell'acqua (APE BOTTINATRICE).

Al di sopra dell'arnia l'apicoltore pone una seconda cassetta, anch'essa divisa in favi, chiamata MELARIO (isolata con un filtro in modo che l'ape regina non possa accedervi per depositare uova), dove le api depositano miele in eccesso, che non serve cioè al nutrimento delle larve.

E' solamente dal melario che l'apicoltore il miele nel periodo primavera/estate (mentre in autunno il miele prodotto non viene raccolto poichè serve per il nutrimento invernale dell'alveare).

Per fare questa operazione, l'apicoltore toglie i favi dal melario e li pone in un apparecchio chiamato SMELATORE, dove, per forza centrifuga, il miele si stacca, lasciando i favi intatti e pronti per essere reintrodotti nel melario.

Ad ogni periodo di fioritura corrisponde una raccolta di qualità diverse di miele, variabile in base ai cambiamenti del clima (temperatura, pioggia, vento).

Nella nostra zona possiamo avere, in sequenza:

  • MIELE DI CASTAGNO
  • MIELE DI CILIEGIO
  • MIELE DI ACACIA
  • MIELE DI TIGLIO
  • MIELE MILLEFIORI

L'apicoltore, con un sistema molto complesso, raccoglie anche la PAPPA REALE, una sostanza fortemente energetica, che le api operaie producono per il nutrimento delle api regine.

All'interno dell'alveare le api producono anche il PROPOLIS, sostanza resinosa, gommosa e balsamica che viene usata per chiudere le fessure o isolare elementi penetrati nell'arnia che possono risultare pericolosi per la vita della colonia.

Il PROPOLIS viene utilizzato nella medicina popolare per le sue ottime doti di antibiotico naturale, anestetico locale, cicatrizzante per piccole lesioni superficiali.

Il fornaio

Oltre che un vero e proprio mestiere, praticato nelle botteghe da fornaio, la preparazione settimanale del pane era un lavoro quasi rituale che occupava molti membri della famiglia contadina. Ognuno aveva compiti precisi: generalmente gli uomini portavano a macinare il grano al mulino, si occupavano di accendere il forno ed aiutavano le donne nel duro lavoro alla GRAMA; alle donne invece era riservata la panificazione vera e propria.

Ad ogni panificazione si accantonava una pagnotta cruda che serviva come lievito (LIVADUR) per la volta seguente. Questa pagnotta veniva conservata in un luogo fresco, spesso nella SPALATURA, e nel giro di una settimana si seccava. La sera precedente la panificazione si metteva a bagno AL LIVADUR, sbriciolato, con acqua tiepida e si faceva poi un impasto con un quarto del totale della farina da utilizzare, si ricopriva con un panno e si lasciava nella madia riposare tutta la notte. Il mattino seguente si aggiungeva all’impasto il resto della farina, acqua e sale e si preparava il PASTONE che veniva lavorato con la grama per circa tre quarti d’ora, fino a diventare morbido e liscio. Era questa l’operazione più lunga e faticosa che richiedeva forza nelle braccia e coordinazione nei movimenti.

Poi le donne dividevano il pastone e preparavano le pagnotte di pane, che venivano ordinate su un tagliere e lasciate lievitare, con tempi che solo la loro abilità ed esperienza sapeva definire. Ogni pagnotta veniva incisa verticalmente con una lametta da barba, che tagliava nettamente la crosticina superficiale. In questo modo il pane, cocendo,fioriva e si gonfiava uniformemente.

Contemporaneamente gli uomini scaldavano il forno con le fascine (I FASSETT). Quando il forno era caldo, si toglievano le braci, si ripuliva accuratamente il piano del forno con una scopetta formata da ortiche o da altre erbe selvatiche, che avevano la funzione di toglier dal forno la ROSA, cioè il calore in eccesso. Il pane cosi cuoceva lentamente per circa un’ora, in un forno a calore uniforme e costante, poiché l’imboccatura non doveva essere mai aperta.

Dopo la cottura del pane, a calore più moderato, si cuocevano i dolci (Brazadèla).